Le donne in Africa sono il motore del Paese, la sua energia. Fanno il possibile per accedere all’istruzione, portano a casa stipendi che permettono a intere famiglie allargate di vivere e far studiare i figli, coltivano i campi e soprattutto non si arrendono grazie alla loro forza interiore. Ma essere donna è ancora una sfida nella sfida: se sono sempre di più quelle che cercano di riscattarsi da una condizione di svantaggio economico e sociale, gli ostacoli e le difficoltà da superare sono ancora tanti.

I tassi di fertilità in Africa sono i più alti nel mondo. Solo in Uganda ognuna ha in media 6 figli e il 15% partorisce il primo figlio tra i 15 e i 19 anni. Più di 1 donna su 5 di età compresa tra i 15 e i 49 anni ha subito un qualche tipo di violenza sessuale nel corso della sua vita e molte delle violenze sono consumate in ambiente domestico, soprattutto in aree rurali dove tasso di scolarizzazione è basso. Le violenze di genere possono avere conseguenze devastanti per la loro vita: molto spesso si ritrovano ad affrontare gravidanze indesiderate, aborti praticati in condizioni non sicure, con il rischio di contrarre malattie sessualmente trasmissibili. La condizione della donna in Uganda è quindi ancora estremamente critica.

Sono proprio le gravidanze frequenti e ravvicinate che creano problemi sanitari e sociali, specie quando non sono desiderate e avvengano in contesti di grande povertà. Un tema delicato e urgente. Se il tasso di fertilità rimarrà costante, le proiezioni delle Nazioni Unite prevedono che nel 2050 la popolazione mondiale sarà di 10,6 miliardi e, a tendenza inalterata, nel 2100 arriverà a 15,8 miliardi.

Ma sono proprio le storie di Gladys, Molly, Sida, Hellen che si sono diplomate alla Midwifery School di Kalongo, la nostra scuola di ostetricia, la testimonianza che le cose possono cambiare, che la donna che diventa auto-efficiente può superare tutti i problemi sociali contribuendo alla comunità, salvaguardano tante nuove vite.

All’ospedale di Kalongo il lavoro è donna: ostetriche, infermiere e dottoresse contribuiscono alla cura di moltissime mamme e bambini, combattendo la mortalità materno-infantile, e alla formazione delle studentesse della scuola di ostetricia. Dalla sua nascita nel 1959 alla St. Midwifery School si sono diplomate circa 1.600 ostetriche che, grazie a una formazione qualificata, hanno contribuito con professionalità alla prevenzione, alla cura delle donne non solo in Uganda, ma anche in numerosi Paesi dell’Africa sub sahariana.

Il numero di iscritte è aumentato negli anni e la media annuale di studentesse che terminano i corsi è di circa 30 per il corso di ostetriche professionali e circa 12 per il diploma di ostetriche caposala.

Oltre ad assicurare continuità medica al reparto di Maternità dell’Ospedale, la Scuola contribuisce anche allo sviluppo del ruolo sociale della donna quale importante strumento di empowerment femminile. La formazione lavora a 360° sulla figura femminile e sull’essere donne, cercando di aiutarle a diventare autonome nelle decisioni, acquisire buon senso e lucidità di pensiero non condizionato dalla figura maschile.

Investire nell’empowerment delle donne significa creare un prerequisito essenziale per la realizzazione della giustizia sociale, significa facilitare un percorso diretto verso la parità di genere, lo sradicamento della povertà e una crescita economica inclusiva, specialmente in aree del mondo remote e rurali, in cui alle avversità naturali e ambientali si aggiungono limitazioni sociali, economiche e culturali. Questa è l’eredità importante e lungimirante che padre Giuseppe Ambrosoli ci ha lasciato e per cui ha dato la vita e che oggi si legge nei sorrisi, nella forza di volontà e nell’orgoglio di tutte le studentesse della Midwifery School che sanno di poter fare la differenza.

Grazie a tutti voi che ci aiutate a realizzare i loro sogni!

Scopri di più su come sosteniamo l'empowerment femminile 

"L’Africa, ma soprattutto un posto come Kalongo, ti apre a situazioni, ambienti e storie completamente differenti dalla nostra realtà. Penso che questo faccia solo bene, perché ci stimola a trovare soluzioni con quello che abbiamo a disposizione e ad apprezzare tutto quello che abbiamo. A non sprecarlo, come spesso invece accade qui da noi.

Quando sono tornata a casa mi hanno chiesto quale sia stato il momento più emozionante. All’ospedale di Kalongo ho lavorato per lo più in sala parto: è difficile selezionare i momenti più emozionanti, dato che ogni nascita lo è. Ma il primo parto che ho fatto da sola mi è rimasto particolarmente impresso. Non solo per il fatto di essere riuscita a farcela con pochi strumenti – se penso alle tante risorse a disposizione in Italia – ma anche perché quel giorno è nata una bellissima bambina e la sua mamma ha deciso di chiamarla anche con il mio nome: Laura. È stata una grandissima emozione per me. L’Africa e la gente che la abita ti danno molto più di quello che puoi dare tu. 

Un giorno invece mi sono occupata di una madre che non riusciva a produrre latte e che nutriva il suo neonato di pochi giorni con acqua e zucchero. Qui, purtroppo, non esiste l'alternativa del latte artificiale, che è scarso e molto costoso, e nella loro cultura non è diffusa la pratica della donazione di latte materno. Le madri sono bravissime nell’allattare, perché sanno bene che è l’unica via per nutrire il loro bambino, ma nei rari casi in cui non possono farlo, la situazione diventa davvero critica per loro e soprattutto per il neonato. Un problema che dal nostro punto di vista sembra quasi inconcepibile. Fare tutto ciò che possiamo per sostenere le madri più vulnerabili diventa cruciale"

Laura Esposti, ostetrica volontaria, Ospedale di Kalongo 2024

CARI AMICI,
lo scorso giugno sono stata in Uganda per partecipare alla riunione del Consiglio di Amministrazione dell’ospedale di Kalongo.
La più importante dell’anno, con tanti punti cruciali da discutere, soluzioni da trovare, obiettivi da raggiungere in termini di cure e
servizi di assistenza ai più fragili, nonostante le risorse scarse e spesso inadeguate.

Mentre vi scrivo rivedo le immagini vivide di quei dieci giorni intensi, durante i quali ho visitato i reparti e le nuove unità mediche,
mi sono confronta con il personale ospedaliero, parlato con i pazienti e i loro famigliari. Ho accompagnato lo staff nelle attività sul territorio...

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"Abbiamo raggiunto il villaggio sobbalzando per le strade sterrate e polverose in un'ambulanza stracarica di personale dell’ospedale e di attrezzature. Giunti a destinazione, abbiamo annunciato il nostro arrivo con un impianto stereo che diffondeva musica ad alto volume per attirare il maggiore numero di persone. Ci siamo suddivisi nelle diverse postazioni, per vaccinare, distribuire farmaci e vitamine ai bambini, eseguire i test rapidi per la malaria e l’HIV.

Insieme all'ostetrica dell’ospedale, in una tipica capanna ugandese, ho visitato le donne in gravidanza. Ho somministrato loro il vaccino contro il tetano e la difterite, fornito ferro, acido folico e profilassi antimalarica.

Mi hanno spiegato che se non ci fosse questo servizio le donne dei villaggi non incontrerebbero mai nessuna ostetrica prima del parto, aumentando di molto il rischio di complicanze in gravidanza e di mortalità materna e neonatale al parto".

Francesca Bonadei, ostetrica volontaria dell'Università Statale di Milano - Bicocca, recentemente tornata in Italia dopo tre mesi trascorsi all'ospedale di Kalongo

Ogni settimana un’equipe formata da medici, infermieri e ostetriche  raggiunge i villaggi più lontani per curare bambini, donne e uomini, e diffondere importanti messaggi sulla salute. Producendo un impatto concreto, positivo e a lungo termine sulle comunità più svantaggiate.

Sostieni anche tu il nostro impegno a favore dell'ospedale di Kalongo!

Insieme a te, di villaggio in villaggio, possiamo portare salute a chi vive in zone difficili da raggiungere e non ha alcuna possibilità di incontrare un medico o un'ostetrica qualificati.

CARISSIMI,
con gioia condivido con voi i risultati concreti e tangibili raggiunti insieme nel 2023 grazie all’impegno di chi,

come voi, ha scelto di camminare al nostro fianco.

Nel corso dell’anno abbiamo potuto ampliare la tipologia dei servizi medici erogati dall’ospedale, in particolare per la cura...
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“Una delle esperienze più significative a Kalongo è stato andare nelle comunità a fare le visite per le persone che vivono con HIV. Armati di tutto il necessario, insieme al personale della clinica per l’HIV, siamo andati a distribuire sul territorio le terapie antiretrovirali, a fare prelievi per la carica virale, cercando di cogliere i segni e sintomi allarmanti di altre infezioni. Questo servizio è importantissimo non solo perché evita ai pazienti più fragili di doversi muovere per chilometri e chilometri per avere accesso alle terapie, ma anche perché aiuta a ridurre lo stigma della patologia nella comunità”

Tutti i servizi territoriali, di cui scriveva solo pochi mesi fa la dr.ssa Giulia Lingua, il 6 marzo scorso sono stati fermati.

A seguito della cessazione definitiva dei finanziamenti statunitensi ai programmi di cooperazione e aiuto umanitario, l'ospedale di Kalongo ha perso fondi essenziali per la prevenzione, la diagnosi e la cura dell’HIV.

Un impatto che in cifre si traduce in circa il 20% del bilancio annuale dell’ospedale, pari a quasi 400mila euro in meno. Una decisione che avrà inevitabili conseguenze a cascata su tutti i reparti dell’ospedale.

Stiamo facendo ogni sforzo possibile per dare continuità a quei servizi che improvvisamente hanno visto mancare fondi essenziali; la nostra principale preoccupazione è riuscire a garantire la continuità di tutti i servizi sanitari, perché le risorse a disposizione dell’ospedale non sono sufficienti per tutti e l’impegno della Fondazione è già enorme.

Quotidianamente l’ospedale di Kalongo accoglie decine di donne, molte delle quali in procinto di partorire, bambini affetti da malaria, neonati fragili; donne e uomini che vivono in condizioni di estrema povertà, molti dei quali giungono in ospedale dopo aver percorso decine di chilometri a piedi (nudi) su strade sterrate. A tutti dobbiamo poter garantire assistenza tempestiva, una diagnosi certa, accesso alle cure e un ricovero adeguato. Ma alla luce dell’inaspettato taglio dei fondi USAID da parte del governo statunitense, riuscire oggi ad assicurare tutto questo non è più possibile.

Oggi più che mai abbiamo bisogno del supporto di tutti. Ogni gesto, grande o piccolo, aiuta a proteggere la salute e la vita di migliaia di persone vulnerabili. È fondamentale poter assicurare all’ospedale la presenza del personale sanitario, l'approvvigionamento di farmaci, le terapie salvavita e persino la benzina per le ambulanze che raggiungono i villaggi più remoti. In quei villaggi ci sono bambini, donne e uomini che contano sul team dell'ospedale di Kalongo pronto a prendersi cura di loro e a non farli sentire soli.

Rimanete al nostro fianco; non possiamo permettere che le decisioni di pochi spengano la speranza nel domani dei più piccoli e indifesi che oggi rischiano di non ricevere alcuna risposta ai loro bisogni vitali.

Aiutateci a sostenere l'ospedale di Kalongo.

Grazie a un viaggio illuminante in Kenya durante i miei studi universitari avevo deciso di fare il chirurgo in Africa e grazie alla mia determinazione ci sono riuscito nel gennaio 1983. Una scelta di vita durata più di 30 anni che mi ha portato in diversi Paesi africani. Anche adesso che sono pensionato passo vari mesi ogni anno in Africa.

Ero un giovane chirurgo proveniente dall'ospedale di Padova quando arrivi a Kalongo, pieno di nozioni teoriche ma alquanto povero di pratica come spesso succedeva a quei tempi. Inoltre, cosa ancor più importante, mentre in Italia la mia attività si svolgeva in un reparto di chirurgia, a Kalongo mi trovai a confrontarmi con una miriade di patologie a me del tutto sconosciute (ostetrico-ginecologiche, urologiche, ortopediche, etc.). In situazioni come queste è molto facile venir sopraffatti se non si ha un'ancora di riferimento, una "chioccia" cioè una persona esperta che ti accompagni, ti insegni, e soprattutto non ti abbandoni quando sei in difficoltà.

Io ho avuto l'enorme fortuna di trovare una "chioccia" straordinaria: Giuseppe Ambrosoli.

I due anni passati a lavorare fianco a fianco a Giuseppe (mi viene difficile chiamarlo padre Ambrosoli visto lo stretto rapporto che avevamo instaurato tra noi) sono stati per molti aspetti i più intensi e belli della mia vita, non solo per quanto ho imparato professionalmente ma anche, e forse soprattutto, per la lezione di vita e di disciplina etica e morale che lui trasmetteva a tutti coloro che gli erano attorno.

Chirurgo africano vero (cioè che sa fare di tutto) Giuseppe andava sempre al sodo in ogni situazione.

Quello che mi colpì da subito fu proprio il suo approccio chirurgico molto pratico che smitizzava alla grande tutta quell’aura che si respirava nelle sale operatorie italiane. Io che venivo da Padova, ad esempio, ero abituato a considerare l’intervento di tiroidectomia quale prerogativa esclusiva del primario: ricordo che in sala attorno al letto operatorio eravamo in sette persone tra primario, aiuto, due assistenti, anestesista, infermiere... a Kalongo Giuseppe faceva lo stesso intervento da solo ed in anestesia locale! Poi un giorno, dopo avermi mostrato come faceva, mi disse che la successiva tiroidectomia l’avrei fatta io con il suo aiuto: ero incredulo e spaventato ma ce la feci e tutto andò bene, in seguito ne feci molte altre da solo e tutto questo grazie a Giuseppe!

Lo scopo del suo agire in sala operatoria era sempre quello di salvare il paziente malgrado condizioni di lavoro a dir poco difficili: eccolo quindi fare l’anestesia spinale, poi correre a “lavarsi” (disinfettare mani ed avambracci prima di indossare il camice e i guanti sterili), operare senza anestesista di supporto (l’unico aiuto veniva da una suora comboniana che non era neppure infermiera ma che aveva imparato il mestiere sul campo ed eseguiva le direttive di Giuseppe), e finire l’intervento prima che cessasse l’effetto dell’anestesia...una vera corsa ad ostacoli!

Malgrado tutto questo, Giuseppe si avventurava anche in interventi complessi, come il reimpianto delle tube e le riparazioni di fistole vescico-vaginali, per cercare di dare una speranza a tutte quelle donne affette da sterilità secondaria o emarginate dalla famiglia per colpa del forte odore di urina dovuto alle fistole. E spesso con pazienza e determinazione ci riusciva!

 

Essendo Kalongo un ospedale privato “non profit” cioè non a scopo di lucro e avendo di conseguenza risorse limitate Giuseppe aveva instaurato una gestione mirante al risparmio in ogni cosa: si lavavano e sterilizzavano all’infinito camici, garze e guanti chirurgici, si conservavano i pezzi dei sottilissimi e costosissimi fili di sutura per la cataratta, in pratica niente andava buttato!

Ricordo un simpatico aneddoto la volta che venne un farmacista volontario italiano per un mese: Giuseppe lo incaricò di rimettere in ordine il grande magazzino dei farmaci, molti dei quali arrivati come donazione dall’Italia. Il farmacista trovò una grande quantità di medicine scadute e cominciò ad eliminarle (bruciarle), cosa per lui del tutto naturale. Non appena Giuseppe vide il fumo si precipitò a bloccarlo, la regola di non buttare niente, infatti, non aveva eccezioni ed i farmaci scaduti si utilizzavano regolarmente! Ad esempio, per gli antibiotici si usava la regola di aumentarne il dosaggio in proporzione alla data dell’avvenuta scadenza, il bello è che non ricordo alcun effetto collaterale né tossico, anzi funzionavano benissimo!

Immagino che questo tipo di gestione faccia storcere il naso a molti in Italia abituati come siamo alla cultura dello spreco e dell’usa e getta... invece in quel contesto era un approccio assolutamente giustificato che proprio grazie ad una gestione oculata e senza sprechi dava la possibilità di curare un numero maggiore di pazienti.

Quando Giuseppe si ammalò ai reni e fu costretto a stare vari mesi in Italia per curarsi si teneva in costante contatto con noi e faceva di tutto affinché all’ospedale non mancasse mai niente. I medici italiani gli avevano permesso di tornare a Kalongo a condizione che stesse a riposo e limitasse al massimo il lavoro di sala operatoria. Invece era una lotta continua perché non voleva saperne di stare a riposo! Ci toccò quindi arrivare a vari compromessi, ad esempio veniva a “sbirciare” in sala operatoria per vedere che tutto andasse bene e quando c’era un caso difficile lui si preparava con grande entusiasmo!

Il destino poi volle che tornassi in Uganda dal 1986 al 1988 per dirigere un grosso progetto in West Nile. Ebbi quindi il triste privilegio di vivere quotidianamente in diretta, tramite le radio dei Comboniani, gli ultimi giorni di Giuseppe e tutti i tentativi che facemmo per poterlo salvare portandolo all’ospedale Lacor di Gulu dove c’era l’apparecchio per l’emodialisi. Purtroppo, l’infuriare della guerra civile impediva il trasporto via terra e quando finalmente una mattina arrivò l’elicottero per portarlo a Gulu, Giuseppe spirò...

Non potrò mai dimenticarlo, grazie Giuseppe per tutto quello che mi hai insegnato e dato!

(Dr. Augusto Cosulich)

 

 

CARI AMICI,
la storia dell’ospedale di Kalongo è una lunga storia di amore, dedizione e coraggio,
ed è da questa meravigliosa storia che esattamente 25 anni ha avuto inizio quella della Fondazione Ambrosoli.

Nata per volontà dei padri comboniani, che posero la prima pietra a Kalongo nel lontano 1933,
e della famiglia di padre Giuseppe in risposta all’urgente necessità di dare continuità alla sua opera, rimasta improvvisamente orfana della guida del suo fondatore.

Cernobbio, 2023 - Charity Dinner

Un futuro iniziato 25 anni fa 

Si è tenuta lo scorso 8 novembre l’annuale Charity Dinner della Fondazione Ambrosoli nella magica cornice di Villa d’Este a Cernobbio, il tradizionale appuntamento che riunisce amici, aziende, istituzioni e quanti credono nei valori e nella missione della Fondazione.

Questa edizione ha segnato il traguardo dei 25 anni della Fondazione Ambrosoli, durante i quali la Fondazione ha raccolto l’eredità di Padre Giuseppe e ha lavorato insieme  all’ospedale, al personale medico e all’intera comunità per salvaguardare il diritto alla salute, formare e educare alla prevenzione, secondo quello che è tra i nostri principi fondanti, ovvero contribuire a una crescita sociale a tutto tondo di quelle stesse comunità e territori per garantire un cambiamento di lungo termine più profondo e duraturo.

Durante la serata le testimonianze di due giovani medici specializzandi in malattie infettive tropicali, Bianca Maria Longo e Stefano Torresan, che sono stati recentemente a Kalongo, hanno fatto toccare con mano agli ospiti attraverso il loro racconto cosa rappresenta l’ospedale per quella comunità e cosa significa fare il medico a Kalongo. Perché il futuro inizia proprio da loro, da quanti credono nel valore dell’opera che Padre Giuseppe ci ha lasciato e contribuiscono a portarlo avanti.

Un ringraziamento alle aziende sponsor che hanno contribuito a rendere speciale questa serata per tutti i nostri ospiti.

       

                     

        

Qui a Kalongo il nostro lavoro fa davvero la differenza e riusciamo a portarlo avanti grazie a tutti coloro che condividono i nostri valori e credono nel nostro impegno. Un grazie di cuore a tutti gli amici che ci accompagnano da anni!

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