CARISSIMI,
con gioia condivido con voi i risultati concreti e tangibili raggiunti insieme nel 2023 grazie all’impegno di chi,
come voi, ha scelto di camminare al nostro fianco.
Nel corso dell’anno abbiamo potuto ampliare la tipologia dei servizi medici erogati dall’ospedale, in particolare per la cura...
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“Una delle esperienze più significative a Kalongo è stato andare nelle comunità a fare le visite per le persone che vivono con HIV. Armati di tutto il necessario, insieme al personale della clinica per l’HIV, siamo andati a distribuire sul territorio le terapie antiretrovirali, a fare prelievi per la carica virale, cercando di cogliere i segni e sintomi allarmanti di altre infezioni. Questo servizio è importantissimo non solo perché evita ai pazienti più fragili di doversi muovere per chilometri e chilometri per avere accesso alle terapie, ma anche perché aiuta a ridurre lo stigma della patologia nella comunità”
Tutti i servizi territoriali, di cui scriveva solo pochi mesi fa la dr.ssa Giulia Lingua, il 6 marzo scorso sono stati fermati.
A seguito della cessazione definitiva dei finanziamenti statunitensi ai programmi di cooperazione e aiuto umanitario, l'ospedale di Kalongo ha perso fondi essenziali per la prevenzione, la diagnosi e la cura dell’HIV.
Un impatto che in cifre si traduce in circa il 20% del bilancio annuale dell’ospedale, pari a quasi 400mila euro in meno. Una decisione che avrà inevitabili conseguenze a cascata su tutti i reparti dell’ospedale.
Stiamo facendo ogni sforzo possibile per dare continuità a quei servizi che improvvisamente hanno visto mancare fondi essenziali; la nostra principale preoccupazione è riuscire a garantire la continuità di tutti i servizi sanitari, perché le risorse a disposizione dell’ospedale non sono sufficienti per tutti e l’impegno della Fondazione è già enorme.
Quotidianamente l’ospedale di Kalongo accoglie decine di donne, molte delle quali in procinto di partorire, bambini affetti da malaria, neonati fragili; donne e uomini che vivono in condizioni di estrema povertà, molti dei quali giungono in ospedale dopo aver percorso decine di chilometri a piedi (nudi) su strade sterrate. A tutti dobbiamo poter garantire assistenza tempestiva, una diagnosi certa, accesso alle cure e un ricovero adeguato. Ma alla luce dell’inaspettato taglio dei fondi USAID da parte del governo statunitense, riuscire oggi ad assicurare tutto questo non è più possibile.
Oggi più che mai abbiamo bisogno del supporto di tutti. Ogni gesto, grande o piccolo, aiuta a proteggere la salute e la vita di migliaia di persone vulnerabili. È fondamentale poter assicurare all’ospedale la presenza del personale sanitario, l'approvvigionamento di farmaci, le terapie salvavita e persino la benzina per le ambulanze che raggiungono i villaggi più remoti. In quei villaggi ci sono bambini, donne e uomini che contano sul team dell'ospedale di Kalongo pronto a prendersi cura di loro e a non farli sentire soli.
Rimanete al nostro fianco; non possiamo permettere che le decisioni di pochi spengano la speranza nel domani dei più piccoli e indifesi che oggi rischiano di non ricevere alcuna risposta ai loro bisogni vitali.
Aiutateci a sostenere l'ospedale di Kalongo.
Grazie a un viaggio illuminante in Kenya durante i miei studi universitari avevo deciso di fare il chirurgo in Africa e grazie alla mia determinazione ci sono riuscito nel gennaio 1983. Una scelta di vita durata più di 30 anni che mi ha portato in diversi Paesi africani. Anche adesso che sono pensionato passo vari mesi ogni anno in Africa.
Ero un giovane chirurgo proveniente dall'ospedale di Padova quando arrivi a Kalongo, pieno di nozioni teoriche ma alquanto povero di pratica come spesso succedeva a quei tempi. Inoltre, cosa ancor più importante, mentre in Italia la mia attività si svolgeva in un reparto di chirurgia, a Kalongo mi trovai a confrontarmi con una miriade di patologie a me del tutto sconosciute (ostetrico-ginecologiche, urologiche, ortopediche, etc.). In situazioni come queste è molto facile venir sopraffatti se non si ha un'ancora di riferimento, una "chioccia" cioè una persona esperta che ti accompagni, ti insegni, e soprattutto non ti abbandoni quando sei in difficoltà.
Io ho avuto l'enorme fortuna di trovare una "chioccia" straordinaria: Giuseppe Ambrosoli.
I due anni passati a lavorare fianco a fianco a Giuseppe (mi viene difficile chiamarlo padre Ambrosoli visto lo stretto rapporto che avevamo instaurato tra noi) sono stati per molti aspetti i più intensi e belli della mia vita, non solo per quanto ho imparato professionalmente ma anche, e forse soprattutto, per la lezione di vita e di disciplina etica e morale che lui trasmetteva a tutti coloro che gli erano attorno.
Chirurgo africano vero (cioè che sa fare di tutto) Giuseppe andava sempre al sodo in ogni situazione.
Quello che mi colpì da subito fu proprio il suo approccio chirurgico molto pratico che smitizzava alla grande tutta quell’aura che si respirava nelle sale operatorie italiane. Io che venivo da Padova, ad esempio, ero abituato a considerare l’intervento di tiroidectomia quale prerogativa esclusiva del primario: ricordo che in sala attorno al letto operatorio eravamo in sette persone tra primario, aiuto, due assistenti, anestesista, infermiere... a Kalongo Giuseppe faceva lo stesso intervento da solo ed in anestesia locale! Poi un giorno, dopo avermi mostrato come faceva, mi disse che la successiva tiroidectomia l’avrei fatta io con il suo aiuto: ero incredulo e spaventato ma ce la feci e tutto andò bene, in seguito ne feci molte altre da solo e tutto questo grazie a Giuseppe!
Lo scopo del suo agire in sala operatoria era sempre quello di salvare il paziente malgrado condizioni di lavoro a dir poco difficili: eccolo quindi fare l’anestesia spinale, poi correre a “lavarsi” (disinfettare mani ed avambracci prima di indossare il camice e i guanti sterili), operare senza anestesista di supporto (l’unico aiuto veniva da una suora comboniana che non era neppure infermiera ma che aveva imparato il mestiere sul campo ed eseguiva le direttive di Giuseppe), e finire l’intervento prima che cessasse l’effetto dell’anestesia...una vera corsa ad ostacoli!
Malgrado tutto questo, Giuseppe si avventurava anche in interventi complessi, come il reimpianto delle tube e le riparazioni di fistole vescico-vaginali, per cercare di dare una speranza a tutte quelle donne affette da sterilità secondaria o emarginate dalla famiglia per colpa del forte odore di urina dovuto alle fistole. E spesso con pazienza e determinazione ci riusciva!
Essendo Kalongo un ospedale privato “non profit” cioè non a scopo di lucro e avendo di conseguenza risorse limitate Giuseppe aveva instaurato una gestione mirante al risparmio in ogni cosa: si lavavano e sterilizzavano all’infinito camici, garze e guanti chirurgici, si conservavano i pezzi dei sottilissimi e costosissimi fili di sutura per la cataratta, in pratica niente andava buttato!
Ricordo un simpatico aneddoto la volta che venne un farmacista volontario italiano per un mese: Giuseppe lo incaricò di rimettere in ordine il grande magazzino dei farmaci, molti dei quali arrivati come donazione dall’Italia. Il farmacista trovò una grande quantità di medicine scadute e cominciò ad eliminarle (bruciarle), cosa per lui del tutto naturale. Non appena Giuseppe vide il fumo si precipitò a bloccarlo, la regola di non buttare niente, infatti, non aveva eccezioni ed i farmaci scaduti si utilizzavano regolarmente! Ad esempio, per gli antibiotici si usava la regola di aumentarne il dosaggio in proporzione alla data dell’avvenuta scadenza, il bello è che non ricordo alcun effetto collaterale né tossico, anzi funzionavano benissimo!
Immagino che questo tipo di gestione faccia storcere il naso a molti in Italia abituati come siamo alla cultura dello spreco e dell’usa e getta... invece in quel contesto era un approccio assolutamente giustificato che proprio grazie ad una gestione oculata e senza sprechi dava la possibilità di curare un numero maggiore di pazienti.
Quando Giuseppe si ammalò ai reni e fu costretto a stare vari mesi in Italia per curarsi si teneva in costante contatto con noi e faceva di tutto affinché all’ospedale non mancasse mai niente. I medici italiani gli avevano permesso di tornare a Kalongo a condizione che stesse a riposo e limitasse al massimo il lavoro di sala operatoria. Invece era una lotta continua perché non voleva saperne di stare a riposo! Ci toccò quindi arrivare a vari compromessi, ad esempio veniva a “sbirciare” in sala operatoria per vedere che tutto andasse bene e quando c’era un caso difficile lui si preparava con grande entusiasmo!
Il destino poi volle che tornassi in Uganda dal 1986 al 1988 per dirigere un grosso progetto in West Nile. Ebbi quindi il triste privilegio di vivere quotidianamente in diretta, tramite le radio dei Comboniani, gli ultimi giorni di Giuseppe e tutti i tentativi che facemmo per poterlo salvare portandolo all’ospedale Lacor di Gulu dove c’era l’apparecchio per l’emodialisi. Purtroppo, l’infuriare della guerra civile impediva il trasporto via terra e quando finalmente una mattina arrivò l’elicottero per portarlo a Gulu, Giuseppe spirò...
Non potrò mai dimenticarlo, grazie Giuseppe per tutto quello che mi hai insegnato e dato!
(Dr. Augusto Cosulich)
CARI AMICI,
la storia dell’ospedale di Kalongo è una lunga storia di amore, dedizione e coraggio,
ed è da questa meravigliosa storia che esattamente 25 anni ha avuto inizio quella della Fondazione Ambrosoli.
Nata per volontà dei padri comboniani, che posero la prima pietra a Kalongo nel lontano 1933,
e della famiglia di padre Giuseppe in risposta all’urgente necessità di dare continuità alla sua opera, rimasta improvvisamente orfana della guida del suo fondatore.
Cernobbio, 2023 - Charity Dinner
Un futuro iniziato 25 anni fa
Si è tenuta lo scorso 8 novembre l’annuale Charity Dinner della Fondazione Ambrosoli nella magica cornice di Villa d’Este a Cernobbio, il tradizionale appuntamento che riunisce amici, aziende, istituzioni e quanti credono nei valori e nella missione della Fondazione.
Questa edizione ha segnato il traguardo dei 25 anni della Fondazione Ambrosoli, durante i quali la Fondazione ha raccolto l’eredità di Padre Giuseppe e ha lavorato insieme all’ospedale, al personale medico e all’intera comunità per salvaguardare il diritto alla salute, formare e educare alla prevenzione, secondo quello che è tra i nostri principi fondanti, ovvero contribuire a una crescita sociale a tutto tondo di quelle stesse comunità e territori per garantire un cambiamento di lungo termine più profondo e duraturo.
Durante la serata le testimonianze di due giovani medici specializzandi in malattie infettive tropicali, Bianca Maria Longo e Stefano Torresan, che sono stati recentemente a Kalongo, hanno fatto toccare con mano agli ospiti attraverso il loro racconto cosa rappresenta l’ospedale per quella comunità e cosa significa fare il medico a Kalongo. Perché il futuro inizia proprio da loro, da quanti credono nel valore dell’opera che Padre Giuseppe ci ha lasciato e contribuiscono a portarlo avanti.
Un ringraziamento alle aziende sponsor che hanno contribuito a rendere speciale questa serata per tutti i nostri ospiti.
Qui a Kalongo il nostro lavoro fa davvero la differenza e riusciamo a portarlo avanti grazie a tutti coloro che condividono i nostri valori e credono nel nostro impegno. Un grazie di cuore a tutti gli amici che ci accompagnano da anni!
CARI AMICI,
il nostro cammino a Kalongo è iniziato esattamente 25 anni fa con la ferma volontà di preservare e proseguire l’opera di padre
Giuseppe Ambrosoli.
Durante il cammino le sfide sono state tante, prevalentemente dovute alla scarsità di risorse disponibili e al contesto estremamente remoto in cui opera l’ospedale, lontano da centri urbani e dalle principali vie di comunicazione, in una regione molto povera.
Nonostante questo, tanti e importanti sono stati i traguardi raggiunti a Kalongo in questi anni
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In occasione della memoria liturgica del Beato Giuseppe Ambrosoli, che si celebra il 28 luglio, vogliamo condividere le testimonianze di chi ha avuto il privilegio di conoscerlo e di lasciarsi ispirare dal suo straordinario esempio.
“Quello che più lo caratterizzava e dal quale derivavano tutte le altre sue doti, era la sua umiltà. Egli era sinceramente e profondamente umile, e nel rapporto con lui si percepiva chiaramente che non poneva mai se stesso prima degli altri, ma qualunque cosa facesse lo viveva come un servizio che nasceva dalla sua ricchezza interiore”
Dr Tito Squillaci, medico pediatra
“La prima persona che mi venne incontro fu padre Giuseppe, mi prese le mani, mi diede il benvenuto e mi portò le valigie in camera. Per me, un po’ rustica e asciutta, la sua gentilezza e amorevolezza mi stupirono. Capii con il tempo che il tutto non era forma ma sostanza, perché lui vedeva nell’altro (in qualunque altro) un figlio di Dio. Al suo funerale, al quale assistei, una folla immensa di gente uscita dal bush, sfidando la guerriglia e i soldati; quella folla che lui aveva curato: lebbrosi, zoppi, ciechi, bambini, donne e vecchi. La stessa folla che seguiva Gesù.”
Emilia Francesca Susani, tecnica di laboratorio
“Sono stata parte dello staff della maternità dell'ospedale di Kalongo per oltre sette anni dalla fine del 1980 fino all'evacuazione generale nel 1987. Padre Ambrosoli è stato per me un modello di vita a tutto tondo, se così si può dire. Sobrio ed esigente con sé stesso ma generoso e comprensivo verso gli altri. Disponibile 24 ore su 24 pur di alleviare sofferenze e salvare vite umane. Lavorando in maternità, spesso dovevo ricorrere a Lui anche nel corso della notte per emergenze che richiedevano immediato intervento chirurgico. Mi dispiaceva moltissimo interrompere il suo già limitato tempo di riposo ma la sua risposta era immediata e incoraggiante: Siamo qui per questo, l’importante è salvare la vita della mamma e del bambino.”
Sr. Lea Zandonella
"Nostro padre accolse l’invito di padre Giuseppe e per qualche anno trascorse un mese in Uganda, prestando la propria opera accanto a padre Giuseppe. Di lui ammirava la professionalità, l’impegno, il rispetto della dignità delle persone, la passione. Ammirava quello che era riuscito a fare a Kalongo. Non solo l’ospedale ma anche la scuola di ostetricia: il suo impegno per la formazione del personale. Non si limitava a portare aiuto dall’esterno ma voleva aiutare la popolazione locale a raggiungere l’autonomia anche in campo sanitario”
Cristina, Monica e Valentina Belloni
Dal mese di marzo nel Dr. Ambrosoli Memorial Hospital di Kalongo è entrata in funzione la clinica di salute mentale dotata di personale medico specializzato composto da una psichiatra e due infermiere psichiatriche. La clinica fa parte del progetto “AID 012590/09/3 - You are not alone – salute inclusiva per la prevenzione e la cura delle disabilità visive, motorie e mentali” finanziato da AICS - Agenzia Italiana per la Cooperazione e lo Sviluppo e realizzato da Fondazione Ambrosoli O.N.L.U.S. insieme a CBM Italia. Una risposta concreta e tangibile alla piaga sanitaria e sociale che colpisce il continente africano.
Il Nord Uganda è stato territorio di scontro di una feroce guerra civile durata più di 20 anni, durante la quale la popolazione ha subito violenze inimmaginabili, con conseguenze pesanti sulla prevalenza dei disturbi mentali nella regione. In particolare, il distretto di Agago è il 5° del paese per numero di tentati suicidi. Inoltre, la pandemia ha ulteriormente acuito il bisogno di assistenza psichiatrica e supporto alla salute mentale, infatti, solo nel 2019-2020 i ricoveri al Dr Ambrosoli Memorial Hospital (DAMHK) per tentato suicidio sono aumentati del 279% rispetto al precedente anno. Prima dell’avvio del progetto finanziato dall’AICS, il DAMHK e il Distretto di Agago non disponevano di figure qualificate per l’assistenza psichiatrica, fondamentali per il follow-up e supporto dei tentati suicidi.
Per rispondere a questa emergenza, uno degli obiettivi del progetto mira a integrare la salute mentale nei servizi di base offerti dall’ospedale, formando gli operatori sanitari e assumendo personale psichiatrico specializzato, rafforzando i servizi di prevenzione del suicidio.
La clinica di salute mentale ha l’obiettivo di offrire assistenza specializzata ai pazienti dell’Dr. Ambrosoli Memorial Hospital, integrando la salute mentale in tutti i servizi di base.
La clinica di salute mentale è affiancata da uno sportello di counselling dedicato alle mamme e alle famiglie di persone con disabilità, per fornire un supporto concreto ai nuclei famigliari che affrontano numerose problematiche legate allo stigma, alla povertà e alla mancanza di sostegno adeguato da parte delle istituzioni.
Nei primi due mesi di attività i pazienti che hanno usufruito dei servizi della clinica di salute mentale sono stati 114. Mentre le famiglie che l’educatore dello sportello di counselling ha supportato e assistito sono state 25.
La storia di Simon
Tra i primi pazienti che si sono rivolti alla clinica di salute mentale c’è Simon: un ragazzo di 22 anni del distretto di Agago. Prima ancora è stato un bambino molto intelligente, capace a scuola, ha imparato l’inglese, cosa che non è scontata.
A 19 anni ha iniziato a sentire delle voci, poi anche a rispondere loro e infine a parlare da solo, un po’ a sproposito, cantilenare parole per lui assonanti, forse in rima. Poi talvolta agitarsi, dimenarsi, sentirsi un po’ in trappola, tentare la fuga. A 19 anni gli è stata diagnosticata la schizofrenia o una forma non ben definita di psicosi, una diagnosi pesante ovunque, ma in particolare in un paese come l’Uganda, dove la patologia psichiatrica non è conosciuta o compresa da tutti, dove la reazione più naturale a questo tipo di malattie è credere che siano il frutto di un maleficio o di stregoneria e il modo più immediato per affrontarle per i genitori è contenere il malato legandolo con delle funi.
Simon è stato ricoverato nell’ospedale di Kalongo al momento giusto. Infatti, insieme a lui è arrivato anche un team di infermieri formati nel campo della psichiatria. Simon ha quindi trovato, a Kalongo del personale qualificato per dare un nome alla sua malattia, per pensare delle strategie per curarla e per spiegarla ai familiari in modo che venga compresa.
La speranza è che il progetto possa crescere e Simon e altri pazienti in futuro possano ricevere cure sempre più mirate.
25 luglio 1923 - 27 marzo 1987: in ricordo del Beato Giuseppe Ambrosoli
Un favo colante di miele e di api sotto la lapide di Padre Giuseppe: un simbolo di parsimonia e operosità. Ritrovato in occasione dello scoperchiamento per l’esumazione in vista della beatificazione
“E’ stato un momento molto forte quando nel novembre 2020 ho assistito a Kalongo all’apertura della tomba di padre Ambrosoli per l’esumazione in vista della beatificazione, ma ancora più emozionante quando sotto la lapide di cemento che la ricopriva è stato trovato un favo colante di miele e di api” – ricorda Giovanna Ambrosoli, presidente di Fondazione Ambrosoli.
“Proprio in questi giorni, a ridosso dell’anniversario della morte di padre Ambrosoli, mi è arrivata la relazione del prof. Colombo dell’Università degli Studi di Milano che ha studiato quel favo che avevo riportato dall’Uganda e desidero condividerla alla vigilia di nuova missione a Kalongo. E’ difficile in situazioni come queste definire il confine con la scienza, leggo questo ritrovamento ancora una volta come un segno tangibile di quell’operosità infinita e amorevole che padre Giuseppe ci ha lasciato e che ci ricorda di guardare al prossimo, di rimanere a fianco dei più bisognosi e di costruire un futuro migliore per le nuove generazioni” dichiara Giovanna Ambrosoli.
Relazione del Prof. Mario Colombo, docente di entomologia apidologia presso l’Università degli Studi di Milano, sulla presenza di un favo colante miele e di api sotto la lapide di Padre Giuseppe che è stata scoperchiata per l’esumazione in previsione della beatificazione.
Certi fatti non possono essere interpretati con motivazioni scientifiche, non ne hanno bisogno e non lo devono essere. Il valore ascetico supera quello materiale dettato dall’uomo. Ciò nonostante, proprio da qui voglio partire.
Con la esumazione di Padre Giuseppe, sono affiorati, fra la lapide e la bara, dei favi di cera, colmo di miele e contornato da api vive e attive. Non ci si può limitare allo stupore dettato dalla presenza del piccolo nido, infatti, non è frequente trovare api che per loro bizzarria etologica, (non distinguendo quanto è bene o male, quanto è logico o illogico per la mente umana), vadano a colonizzare loculi e raramente tombe nel terreno. Le api cercano un luogo protetto dove potere costruire il loro nido. Il resto sul giudizio di stranezza del posto scelto dalle api, lo ometto. Nella fattispecie la cosa che stupisce è che la salma di Padre Ambrosoli da Lira, morto nel 1987 a Kalongo, traslato nel 1994, da allora, non è mai stata colonizzata da alcuna famiglia di api. Ne sarebbe stata prova la vecchiezza dei favi, eventualmente dopo tanto tempo, addirittura abbandonati dalla colonia. Stupefacente è il ritrovamento, con l’apertura della tomba, di una colonia di api, di insediamento recente. Fatto provato dalla presenza di api attive, da favi appena costruiti e colmi di fresco miele. La scienza non deve spingersi oltre certi limiti, non deve, non ne ha titolo e non può farlo quando i segnali lanciati dalla Provvidenza, sono univoci, certi e di genesi sacra. Le api filtrate da un pertugio impossibile, hanno prodotto e colmato di miele delle cellette, esattamente a distanza di 35 anni dalla morte e precisamente nei giorni in cui Padre Giuseppe dopo avere lasciato la vita terrena, compiva un ultimo volo, per tornare nel suo paese d’origine. Questa volta non da solo, ma accompagnato dal vibrare delle ali delle api, col loro nettare per rendere dolce questa partenza e con questo piccolo miracolo. La trina congiunzione del Sacerdote, del nome Ambrosoli e con le api, simbolo di parsimonia e di operosità. Quella medesima operosità che Padre Giuseppe ha prodigato in Uganda, tanto lontano dai suoi natali. Api a fianco al suo corpo… entrambi segno tangibile di lavoro per la comunità, senza risparmio di energie e con guida il cuore.