Padre Giuseppe, un chirurgo africano vero

Grazie a un viaggio illuminante in Kenya durante i miei studi universitari avevo deciso di fare il chirurgo in Africa e grazie alla mia determinazione ci sono riuscito nel gennaio 1983. Una scelta di vita durata più di 30 anni che mi ha portato in diversi Paesi africani. Anche adesso che sono pensionato passo vari mesi ogni anno in Africa.

Ero un giovane chirurgo proveniente dall'ospedale di Padova quando arrivi a Kalongo, pieno di nozioni teoriche ma alquanto povero di pratica come spesso succedeva a quei tempi. Inoltre, cosa ancor più importante, mentre in Italia la mia attività si svolgeva in un reparto di chirurgia, a Kalongo mi trovai a confrontarmi con una miriade di patologie a me del tutto sconosciute (ostetrico-ginecologiche, urologiche, ortopediche, etc.). In situazioni come queste è molto facile venir sopraffatti se non si ha un'ancora di riferimento, una "chioccia" cioè una persona esperta che ti accompagni, ti insegni, e soprattutto non ti abbandoni quando sei in difficoltà.

Io ho avuto l'enorme fortuna di trovare una "chioccia" straordinaria: Giuseppe Ambrosoli.

I due anni passati a lavorare fianco a fianco a Giuseppe (mi viene difficile chiamarlo padre Ambrosoli visto lo stretto rapporto che avevamo instaurato tra noi) sono stati per molti aspetti i più intensi e belli della mia vita, non solo per quanto ho imparato professionalmente ma anche, e forse soprattutto, per la lezione di vita e di disciplina etica e morale che lui trasmetteva a tutti coloro che gli erano attorno.

Chirurgo africano vero (cioè che sa fare di tutto) Giuseppe andava sempre al sodo in ogni situazione.

Quello che mi colpì da subito fu proprio il suo approccio chirurgico molto pratico che smitizzava alla grande tutta quell’aura che si respirava nelle sale operatorie italiane. Io che venivo da Padova, ad esempio, ero abituato a considerare l’intervento di tiroidectomia quale prerogativa esclusiva del primario: ricordo che in sala attorno al letto operatorio eravamo in sette persone tra primario, aiuto, due assistenti, anestesista, infermiere... a Kalongo Giuseppe faceva lo stesso intervento da solo ed in anestesia locale! Poi un giorno, dopo avermi mostrato come faceva, mi disse che la successiva tiroidectomia l’avrei fatta io con il suo aiuto: ero incredulo e spaventato ma ce la feci e tutto andò bene, in seguito ne feci molte altre da solo e tutto questo grazie a Giuseppe!

Lo scopo del suo agire in sala operatoria era sempre quello di salvare il paziente malgrado condizioni di lavoro a dir poco difficili: eccolo quindi fare l’anestesia spinale, poi correre a “lavarsi” (disinfettare mani ed avambracci prima di indossare il camice e i guanti sterili), operare senza anestesista di supporto (l’unico aiuto veniva da una suora comboniana che non era neppure infermiera ma che aveva imparato il mestiere sul campo ed eseguiva le direttive di Giuseppe), e finire l’intervento prima che cessasse l’effetto dell’anestesia...una vera corsa ad ostacoli!

Malgrado tutto questo, Giuseppe si avventurava anche in interventi complessi, come il reimpianto delle tube e le riparazioni di fistole vescico-vaginali, per cercare di dare una speranza a tutte quelle donne affette da sterilità secondaria o emarginate dalla famiglia per colpa del forte odore di urina dovuto alle fistole. E spesso con pazienza e determinazione ci riusciva!

 

Essendo Kalongo un ospedale privato “non profit” cioè non a scopo di lucro e avendo di conseguenza risorse limitate Giuseppe aveva instaurato una gestione mirante al risparmio in ogni cosa: si lavavano e sterilizzavano all’infinito camici, garze e guanti chirurgici, si conservavano i pezzi dei sottilissimi e costosissimi fili di sutura per la cataratta, in pratica niente andava buttato!

Ricordo un simpatico aneddoto la volta che venne un farmacista volontario italiano per un mese: Giuseppe lo incaricò di rimettere in ordine il grande magazzino dei farmaci, molti dei quali arrivati come donazione dall’Italia. Il farmacista trovò una grande quantità di medicine scadute e cominciò ad eliminarle (bruciarle), cosa per lui del tutto naturale. Non appena Giuseppe vide il fumo si precipitò a bloccarlo, la regola di non buttare niente, infatti, non aveva eccezioni ed i farmaci scaduti si utilizzavano regolarmente! Ad esempio, per gli antibiotici si usava la regola di aumentarne il dosaggio in proporzione alla data dell’avvenuta scadenza, il bello è che non ricordo alcun effetto collaterale né tossico, anzi funzionavano benissimo!

Immagino che questo tipo di gestione faccia storcere il naso a molti in Italia abituati come siamo alla cultura dello spreco e dell’usa e getta... invece in quel contesto era un approccio assolutamente giustificato che proprio grazie ad una gestione oculata e senza sprechi dava la possibilità di curare un numero maggiore di pazienti.

Quando Giuseppe si ammalò ai reni e fu costretto a stare vari mesi in Italia per curarsi si teneva in costante contatto con noi e faceva di tutto affinché all’ospedale non mancasse mai niente. I medici italiani gli avevano permesso di tornare a Kalongo a condizione che stesse a riposo e limitasse al massimo il lavoro di sala operatoria. Invece era una lotta continua perché non voleva saperne di stare a riposo! Ci toccò quindi arrivare a vari compromessi, ad esempio veniva a “sbirciare” in sala operatoria per vedere che tutto andasse bene e quando c’era un caso difficile lui si preparava con grande entusiasmo!

Il destino poi volle che tornassi in Uganda dal 1986 al 1988 per dirigere un grosso progetto in West Nile. Ebbi quindi il triste privilegio di vivere quotidianamente in diretta, tramite le radio dei Comboniani, gli ultimi giorni di Giuseppe e tutti i tentativi che facemmo per poterlo salvare portandolo all’ospedale Lacor di Gulu dove c’era l’apparecchio per l’emodialisi. Purtroppo, l’infuriare della guerra civile impediva il trasporto via terra e quando finalmente una mattina arrivò l’elicottero per portarlo a Gulu, Giuseppe spirò...

Non potrò mai dimenticarlo, grazie Giuseppe per tutto quello che mi hai insegnato e dato!

(Dr. Augusto Cosulich)

 

 

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